Zorro & Pinelli. Tracce di fumetto militante, dal racconto di storia all’azione nel presente.

Un altisonante titolo da dare ad un progetto di fumetto che sta muovendo ora i primi passi.

Effettivamente si tratta di un progetto, in quanto i due autori, Nicola Gobbi e Jacopo Frey stanno ora iniziando a produrre delle vere storie a fumetti. Per quanto riguarda Nicola questa è una tappa fondamentale del suo percorso, che ha preso le mosse dagli studi di fumetto dapprima alla Scuola Internazionale poi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, mentre per Jacopo si tratta della sperimentazione di un possibile percorso di indagine della realtà, praticando normalmente altre strade di ricerca. I due si muovono fra Ancona, loro città natale e Bologna, città, in cui, pur nelle contraddizioni che essa vive, hanno trovato ottime occasioni di espressione.

Zorro e Pinelli hanno fato la loro comparsa nel n° 2 di “Burp! Deliri grafico- intestinali”, in un racconto sulla vicenda dell’omicidio Mario Lupo, compagno di Lotta Continua ucciso dai fascisti nel 1972.

I due personaggi stanno trovando una loro dimensione nelle storie, assumendo con sempre più consapevolezza il ruolo di portavoce della nostra volontà di produrre fumetto con un forte ancoraggio con la Realtà, unico terreno che, secondo noi , può permettere al genere di uscire dalla crisi di identità che sta attraversando.

Le nostre produzioni spaziano in un ampio spettro di analisi, che cerca di toccare i momenti di maasima conflittualità e

La pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori!

Per il fumetto indipendente

Buona strada

Jacopo e Nicola

lunedì 7 febbraio 2011

A VENT’ANNI DALLO SCIOGLIMENTO DEL PCI



Alcune considerazioni critiche
Settant’anni raccolti in una mostra. L’esposizione “Avanti popolo! Il PCI nella storia d’Italia” racconta infatti la storia del Partito comunista Italiano, sfruttando, anche con una certa vena di amara ironia, la ricorrenza di importanti anniversari per segnare le date di apertura al pubblico: il 21 gennaio con il novantesimo della nascita e la prima settimana di febbraio, in cui si ha, con la data del  3, il ventesimo della fine del partito.
 Ed è proprio con lo spirito dei vecchi ricordi che si sviluppa quest’esposizione, in un costante ondeggiare fra il forte interesse che può suscitare negli studiosi di storia sociale e un amarcord per nostalgici del ‘Partito’ (alla custodia dei manoscritti originali di Gramsci in esposizione è stato posto il vecchio servizio d’ordine ‘democratico’ di via delle Botteghe Oscure’)[1].
Facendo riferimento all’articolo di Emmerre comparso su “Umanità Nova” n. 1, 2011 per quanto riguarda i primi passi della storia del PCI, in questa sede vorremmo spendere alcune parole per analizzarne invece la fine. Una lettura critica di questo passaggio può rivelarsi importante anche per chi ha vissuto con stanchezza e rabbia la presenza monolitica nell’opposizione politica e antagonista della prima repubblica di questo partito, che sempre ha bloccato ogni spinta di base al cambiamento sociale durante tutto il secondo dopoguerra, facendo rientrare il malcontento sociale nelle dinamiche “di un  confronto democratico, sancito dalla Costituzione nata dalla Resistenza”[2].  
Il 4 febbraio del 1991 i quotidiani riportarono in prima pagina una rassegna abbastanza accurata del congresso del PCI che si stava tenendo a Rimini. L’interesse dei media era dovuto al fatto che in questa sede i delegati delle varie federazioni locali dovevano decidere se dare o meno il proprio consenso alla linea espressa dalla segreteria di Achille Occhetto, che, oltre all’appoggio alla prima guerra del Golfo,  prevedeva anche  lo scioglimento di uno dei  più importanti partiti comunisti non di governo nel mondo e la contestuale nascita di uno soggetto politico nuovo che doveva presentarsi come maggiormente in linea con il rinnovato scenario politico mondiale.
Nonostante alcune importanti defezioni di storici dirigenti e di molti militanti, il congresso diede il proprio consenso al documento di Occhetto, assistendo così alla formalizzazione del Partito Democratico della Sinistra e alla meno rumorosa nascita in opposizione del Movimento per la Rifondazione Comunista.
 Pochi confusi anni di preparazione, in cui per la prima volta si era rotta la tradizionale dinamica del centralismo democratico  aprendo il dibattito interno a posizioni differenti da quella della segreteria, il crollo del socialismo reale in tutto l’est, la profonda trasformazione della società italiana, furono i caratteri principali di questo passaggio, che profondamente influì in tutta l’area della sinistra italiana[3]. Se tale passaggio venne vissuto con compiaciuta attesa da quella borghesia democratica e progressista che cercava una sponda politica riformista e maggiormente legata al socialismo europeo,  da parte di molti militanti di base ci fu invece disillusione, tristezza e un certo senso di tradimento per l’abbandono della dicitura ‘comunista’ che si era iniziata ad intravedere sin dalla famosa svolta della Bolognina[4].
 Ma la fedeltà alla linea del partito, premiò comunque la ‘segreteria dei coraggiosi’, nonostante alcuni iniziali momenti di confusione[5].
L’errore che i più fecero allora (e che alcuni in cerca di una sinistra che non c’è fanno anche oggi) fu di far risalire a quella data la fine della rappresentanza e della forza dei lavoratori nella società italiana.
In realtà il PCI da tempo era cambiato, integrandosi appieno nel sistema sociale e politico della prima Repubblica.
Ma oltre l’integrazione, alla base del cambiamento,  ci fu l’incapacità di guardare al di là dei paletti dell’ortodossia. Di fronte alla crisi del socialismo di stato, i dirigenti pensarono  al crollo:  l’emancipazione delle classi popolari venne ritenuta impraticabile come l’esistenza di un sistema alternativo a quello capitalistico. Piuttosto che rileggere l’esperienza comunista criticamente, usando magari anche certi spunti provenienti da filoni del pensiero anarchico e libertario, che da sempre avevano accennato all’inesorabile fine del socialismo reale e del ‘capitalismo di stato’, propugnando invece la forza di un comunismo veramente partecipativo e antiautoritario, venne invece assunto il punto di vista dell’avversario, il Capitale[6].
Il fatto che molti militanti caddero,  anche in buona fede, dalle nuvole fu il frutto di anni in cui la responsabilizzazione e la consapevolezza vennero schiacciate da una fidelizzazione dogmatica ed acritica ad un’organizzazione verticista.
 Alla disillusione degli antichi militanti e simpatizzanti, si aggiunse col tempo l’incapacità della sinistra di costruire opposizione ed alternativa, essendo pienamente partecipe della gestione del potere. Il risultato amaro di questo percorso iniziano ad intravederlo anche i molti che hanno, nonostante tutto, continuato a guardare con speranza al cosiddetto “PCI-PDS-DS-PD”.
Una lettura della risposta di Luigi Fabbri al dirigente bolscevico Nicolaj Bucharin, di recente ripubblicata in Anarchia e comunismo scientifico, edito dalla Zeroincondotta, potrebbe essere illuminante per molti ‘vecchi ortodossi’.
Jacopo Frey

 Pubblicato su Umanità Nova del 6 febbraio 2011


[1]              Cfr. Gabriele Polo, La via pedagogica alla liberazione, in “Il Manifesto”, 27/1/2011, pp. 12.
[2]              Cfr. Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, Milano, Feltrinelli, 2010.
[3]              Cfr. Aldo Agosti, Storia del PCI, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 120-125.
[4]              Cfr. Sergio Dalmasso, Rifondare è difficile, Torino, Cric Editrice, 2002, pp. 10-11. 
[5]              D.L., Congresso PDS: Pace è fatta, in “Umanità Nova”, 24/2/1991; Bruno Ugolini, Il primo giorno del PDS, in “L’Unità”, 4/2/1991.
[6]              Cfr. Stefano Fabbri, Post-comunismo/ Né Marx, né Lenin, né Stalin, né Mao, in “A/Rivista anarchica”, ottobre 1991, pp. 5-11.

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